Quel giorno era l’anniversario dei miei genitori. 25 anni di matrimonio ben portati. Non avevano pensato a nessun festeggiamento. A loro bastava avere intorno la famiglia per condividere un vassoio di pasticcini e una bottiglia di spumante.
La mattina mi ero alzata con lo stesso umore di sempre. Stanca ancora prima di cominciare la giornata e assetata al punto di bere 1 litro di acqua tutto d’un fiato. Anche quella mattina, dopo la routine della colazione scelsi di salire sulla bilancia. I vestiti mi stavano larghi già da troppo tempo. Sapevo che qualcosa nel mio corpo non andava nell’ ultimo periodo, ma non ci facevo caso. “Passerà” era il mantra. L’affermazione per eccellenza che non ti fa pensare al presente e a cui lasci la responsabilità di sistemarti il futuro.
Studiavo molto, lavoravo ancora di più. Erano appena finite le vacanze estive dell’italiano medio e la gelateria era tornata a ripopolarsi nelle ore pomeridiane e serali. Lunghe code affollavano da sempre quel negozio il cui gelato risultava al palato di alcuni sempre troppo “pannoso”. A me piaceva un sacco. Mi piaceva servirlo e gustarlo. La coppetta media, due gusti con panna e cannella era la mia miglior cena.
Quella mattina la bilancia, che segnava un chilo in meno rispetto alla settimana precedente, mi spinse a reagire. Avevo raggiunto i 48 kg. Informai mia mamma del disagio e lei mi accompagnò dal medico di base che non riconobbe i sintomi e mi prescrisse gli esami del sangue di routine concludendo la visita con un “Stai serena, non è niente”.
Ancora oggi penso: “Magari quel dottore avesse avuto ragione”.
Nel pomeriggio riuscii a fare una visita in ospedale tramite un collega di mio papà, capo sala del reparto medicina. Ricordo che mi fece qualche domanda e mi invitò ad andare subito al pronto soccorso. Nel tardo pomeriggio ancora giacevo su quella barella in attesa dell’esito degli esami e mio papà ad assistermi che si offriva di andare a prendermi qualcosa da bere alle macchinette: “Vuoi un succo di frutta?”.
Non avevo fame. Solo sete di acqua e una grandissima stanchezza che ancora credevo fosse il risultato di troppe ore di lavoro e troppe notti di studio per preparare gli esami della sessione di settembre. Nottate che venivano puntualmente interrotte da violenti crampi alle gambe e, a seguire bruschi risvegli. Finivo poi per riaddormentarmi solo dopo essermi scolata 1L di acqua (o qualcosa di più).
Quando le analisi arrivarono, tenevo ancora premuto il braccio dove mi avevano fatto il prelievo. Sentivo male e il sangue faticava a fermarsi. Non vidi mai il cartaceo degli esiti.
Mi dissero solo che il valore della glicemia, il cui intervallo normale era 80 – 110, nel mio caso risultava essere 773 mmol/mmL. Mi dissero che, da li a poco, poteva verificarsi il coma per valori di zucchero nel sangue così alti e prolungati nel tempo. Mi dissero che sulla mia cartella clinica, da quel momento in poi, sarebbe comparso – Diabete mellito tipo 1 – insulino dipendente.
Era il 6 settembre 2010. Quella giornata fu una delle più lunghe della mia vita.
E fu una di quelle giornate che ti cambiano l’esistenza.