“Vuoi lo zucchero?”

Ci eravamo date appuntamento alle 10.00. Il bar vicino alla stazione  era, da sempre, la prima tappa dei tanti pendolari che le mattine della settimana iniziavano la loro giornata con caffè e cappuccio. Un must have dell’ italiano medio. Quella mattina era domenica e tutto era più tranquillo. Un semplice caffè domenicale, tra amiche per farsi compagnia raccontandosi la settimana, il mese trascorso.

Era già passato un po’ dalla dolente scoperta e tenere la glicemia sotto controllo non era certamente stata una cosa semplice per me.

Dopo la diagnosi, quel giorno di inizio settembre, venni liquidata dall’ ospedale con una penna di insulina rapida. “10 unità ad ogni pasto” mi confermò l’infermiera. Mi lasciò anche un foglio con scritto nella calligrafia dei medici “No banana, no anguria, no cachi, fare attenzione al riso..” e qualcos’altro che ho voluto volontariamente dimenticare.

I valori che mi erano stati indicati come normali erano 60-80 prima dei pasti e 120-140 dopo i pasti. I miei numeri rimanevano stabili a 400 prima, dopo e durante. Numeri da capogiro che mi facevano diminuire anche la vista, così annebbiata, che pensavo di aver bisogno di fare gli occhiali, ma scoprii ben presto che anche il fondo oculare era coinvolto in questa storia.
Gli specialisti la chiamano retinopatia diabetica. Per me era come avere due zollette di zucchero al posto degli occhi.

Mi avevano dato una macchinetta per misurare la glicemia. Una specie di piccolo cellulare dove inserire una striscia reattiva, appoggiare una goccia di sangue e dopo un paio di “bip” ti veniva restituito il valore di glucosio in circolazione nel corpo.
Pungi oggi, pungi domani cominciarono a salire anche i livelli di cortisolo, l’ ormone dello stress correlato ai tentativi di tenere a bada una situazione, già di per sé, fuori controllo.
I polpastrelli delle mie dita erano diventati quelli di un abile chitarrista jazz.

I giorni seguenti a quell’evento passarono lenti nella stanchezza giustificata di quella patologia. Avevo sospeso l’università per qualche mese e mi preoccupavo solamente di mangiare e fare l’insulina, fare l’insulina e rimettermi al tavolo, sforzandomi di capire cosa mi faceva bene e come il corpo reagiva.

Non ricordo la prima volta che vidi i valori rientrare nel range considerato accettabile.

Oggi, ogni volta che vado al bar e prendo un caffè, mi ritorna alla testa l’inizio della mia carriera diabetica.
E quando mi chiedono “vuoi lo zucchero?” mi viene da sorridere perché dietro quella domanda c’è una storia lunga. Molto lunga che non sempre ho voglia di raccontare, ma che mi rimane scolpita come un’incisione rupestre sui muri delle caverne paleolitiche.

Una storia, la mia, che indosso come un vestito sempre alla moda, attuale e mai fuori stagione.